PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI XXIII - PER LA GIUSTIZIA E PER LA PACE

INTRODUZIONE

L'eco suscitata dall'enciclica Mater et Magistra fu enorme.
Fu chiaro a tutti che Papa Giovanni non aveva assunto solo per modo di dire il ruolo di «maestro» che ad un Papa compete come una delle più gravi responsabilità. Certe correnti d'impostazione chiaramente conservatrice non nascosero la loro irritazione per un documento tanto coraggioso, che aggiornava concretamente - come del resto avevano fatto già Pio XI e Pio XII - gli aspetti e le applicazioni della dottrina sociale della Chiesa. Un foglio statunitense - la National Review - pubblicò addirittura un editoriale irritato ed irritante, in cui non si usavano mezzi termini per definire un parto di senilità il documento pontificio. Ma Papa Giovanni conosceva quello che era accaduto alla Rerum Novarum di Leone XIII, e non si scandalizzò di ciò che stava accadendo alla Mater et Magistra. Tutto era previsto; ogni annunzio coraggioso del Vangelo susciterà scandalo sino alla fine del mondo.
I consensi, d'altronde, furono molto più entusiasti e numerosi dei dissensi. Persino in nazioni «chiuse», sebbene d'anagrafe cattolica, come la Spagna - dove l'enciclica ebbe difficoltà a circolare e, sembra, le ha tuttora - si cominciava a capire quale fosse, sul piano della vita e della giustizia sociale, la misura necessaria per interpretare la storia e operare la salvezza della società in termini di realtà evangelica.
Uno degli episodi più commoventi ed eloquenti fu senza dubbio quello che ebbe per protagonista il primate del Cile, il card. Raoul Da Silva Henriquez. Egli stesso così racconta l'incontro che ebbe con il Papa dopo i problemi che gli aveva posto la lettura dell'enciclica: «La mia archidiocesi aveva delle tenute troppo grandi: cinquemila ettari di terreno che avevamo ricevuto da lasciti. con l'obbligo di non venderli. Ma quelle terre costituivano per me una grande preoccupazione.
«Una volta ne parlai con Papa Giovanni.
«"Santità" gli dissi "la Chiesa cilena sembra molto ricca, perché possiede tante terre, ma non lo è. I contadini che lavorano queste terre, che praticamente non sono in mano della Chiesa ma di affittuari, vivono in condizioni molto misere. Mi pare che proprio noi, che predichiamo la dottrina sociale della Chiesa dobbiamo dare il buon esempio. Perciò, Santità, mi permetta di dare ai contadini la possibilità di venire in possesso di queste terre.
«Il Papa mi rispose:
«"Così si deve fare: lo faccia subito".
«Io continuai:
«"Santità, è un'impresa difficile. Lei dovrà difendere il vescovo di Santiago se qualcuno, com'è probabile, si sentirà in dovere di combatterlo per queste iniziative sociali".
«Il Papa rispose fermo:
«"Lo faccia. Noi lo aiuteremo"».
Il card. Henriquez ha cominciato effettivamente a farlo, ed il suo esempio è stato uno dei più persuasivi in tutto il continente sudamericano.
Papa Giovanni volle che l'enciclica fosse inserita nei programmi dei seminari e degli istituti cattolici di studio, fra gli altri testi regolarmente programmati, in modo che non si dovesse ripetere quello che molte volte si era verificato in troppi seminari ed università cattoliche: che il Papa insegnasse cose molto più avanzate e coraggiose di quelle che venivano insegnate nei seminari, dove sembra che troppe volte la "novità" legittima e feconda della Chiesa abbia trovato più resistenze e sordità che altrove Papa Giovanni sapeva che la Mater et Magistra non era sua - personalmente sua - anche se lui l'aveva pensata diretta e verificata: era semplicemente della Chiesa, e la Chiesa doveva viverne lo spirito che era lo spirito adatto al tempo in cui l'enciclica aveva visto la luce. Come per la Pacem in terris, per la Mater et Magistra si trattava di "purissima dottrina", e quindi si poteva andare tranquilli: c'era il meglio dell'evoluzione del pensiero sociale della teologia cattolica degli ultimi decenni. Anche se per revisioni e rèmore interne, non si tratta di un'enciclica "esplosiva", essa resta il documento più vivo della sociologia cattolica degli ultimi decenni, e può essere considerata una valida prefazione agli sviluppi sempre più accelerati che questa sociologia è destinata ad avere in futuro. D'altronde uno degli aspetti più spontanei e persuasivi dell'insegnamento di Papa Giovanni consiste nel presentare tale insegnamento in forma attiva, organica, da valutare nel suo insieme più a singoli settori.
Per Papa Giovanni la giustizia da attuare in terra non è frutto di violenza e di polemica, ma semplicemente di sviluppo progressivo e coraggioso delle premesse evangeliche, che combaciano e concordano sempre con i principi del diritto naturale. Gli "affamati e gli assetati" di giustizia, i "perseguitati per la giustizia" non sono astrazioni, né nel pensiero di Cristo né nell'ansia pastorale di Papa Giovanni: sono uomini vivi in un dato tempo, in un periodo preciso della storia: uomini di cui occorre rendere conto, uomini da persuadere e da aiutare a salvarsi insieme. Il Regno di Dio si compie in cielo, ma ha inizio in terra; le sue premesse sono divine nella sostanza ma terrestri nella forma e procedono attraverso la fatica, il sacrificio, la speranza e la verità.
Anche i contatti umani che Papa Giovanni ha accettato d'avere come pontefice - fra i quali le rituali udienze dei sovrani e dei capi di Stato del nostro tempo - si collocano spontaneamente in questa prospettiva di dialogo, un dialogo che tende prima di tutto agli umili, ai poveri, ai lavoratori, senza alcuna demagogia, ma semplicemente per coerenza con l'esempio e con l'insegnamento di Cristo; un dialogo che però, sempre senza alcuna ombra di preferenza, accetta i potenti del mondo, in quanto responsabili della vita e della libertà di milioni e milioni di uomini.
Il 30 luglio moriva il card. Tardini, segretario di Stato: un uomo che in molte cose non condivideva affatto i punti di vista e le decisioni di Papa Giovanni, e che tuttavia aveva collaborato con senso di disciplina ammirevole con lui; e che da Papa Giovanni era sempre stato rispettato nelle sue competenze e responsabilità, e sinceramente amato.
Il 21 dicembre ricevette in udienza un altro esponente autorevole dei "fratelli separati": il Dott. Jackson, uno dei presidenti della Chiesa battista degli Stati Uniti. Il Dott. Jackson sarebbe poi stato uno degli "ospiti" del Concilio, e Papa Giovanni volle conoscere da vicino uno dei responsabili di una delle confessioni cristiane più "lontane" dalla Chiesa cattolica. Rapporti ecumenici e rapporti umani diventavano in quegli incontri una cosa sola, e ne scaturiva sempre una profonda stima reciproca, che restava come la base ideale per ogni ulteriore sviluppo del "dialogo".
Il Dott Jackson fu ricevuto lo stesso giorno che Papa Giovanni aveva indirizzato al mondo il consueto messaggio natalizio. Un incontro umano come segno ed esempio di fiducia reciproca; un messaggio universale come invito a riprendere contatto, da parte di tutti gli uomini, con le responsabilità e gl'impegni della pace.
L'orizzonte mondiale, in quel dicembre 1961, si andava già oscurando, e le "nubi minacciose" di cui Papa Giovanni parlerà nel messaggio dell'ottobre del 1962, in piena "crisi di Cuba", si muovevano già ad oscurare le speranze di tutti gli uomini di buona volontà.
«Osservando gli eventi più vicini a noi - diceva il Papa nel messaggio natalizio - si direbbe che in questa nostra epoca lo sgomento e la paura determinino una febbre ed un ardore di vicendevole indisposizione, forse inconsapevole in molti, ma pur sempre avvertibile nelle reciproche relazioni: il che porta ad un continuo turbamento nei rapporti domestici e sociali, civili e internazionali... L'invito (alla pace) vuol essere tanto più pressante quanto più la reciproca diffidenza è causa di crescente malessere. Pensate: anche lo stato di semplice trepidazione in cui le anime restano prese, seguendo gli sforzi di ostentata violenza e di inimicizia fomentata, dà origine al generale raffreddamento, e lo estende sempre di più... Deplorare il male è triste: ma la sua deprecazione non basta ad eliminarlo. È il bene che dobbiamo volere, compiere ed esaltare. È la bontà che deve essere proclamata in faccia al mondo, perché s'irradii all'intorno e penetri in ogni forma del vivere individuale e sociale. Buono dev'essere l'uomo singolo: buono perché specchio di coscienza pura, ove non entri la doppiezza, il calcolo, la durezza del cuore... Buona la famiglia, in cui il reciproco amore palpiti come fiamma nell'esercizio di ogni virtù... Buona dev'essere poi l'umanità».

IL CONCILIO È VICINO

Il giorno di Natale del 1961 la bolla d'indizione del Concilio - che comincia con le parole Humanae salutis - viene letta nelle quattro basiliche maggiori di Roma, in san Pietro, in san Paolo in san Giovanni in Laterano, in santa Maria Maggiore, e proclamato a tutto il mondo. Ormai è certo il 1962 sarà uno degli anni più importanti per la storia della Chiesa moderna.
Papa Giovanni, in due lunghi anni di meditazione, di preghiera e di fatica, ha assimilato profondamente, più di tutti, la realtà del Concilio. Se fu ispirazione concepirne l'idea, è stata fatica e speranza pagata giorno per giorno portarne a compimento il vasto disegno e la minuziosa procedura necessaria. Commissioni e sottocommissioni hanno lavorato febbrilmente, spesso con il Papa presente nelle lunghe sedute, per approntare addirittura sessanta schemi riguardanti i maggiori problemi della Chiesa.
Papa Giovanni non è tipo da nascondersi le difficoltà della grande impresa. Ma la sua speranza è più forte di tutte le difficoltà. Sa bene, secondo una definizione di un suo predecessore, che in un Concilio, «il primo è il momento del diavolo, che cerca di ingarbugliare le cose, il secondo è il momento degli uomini il terzo è il momento dello Spirito Santo». Quello che conta è che sempre più si faccia evidente che solo con un Concilio, ormai, è possibile affrontare problemi come quelli che la Chiesa e il mondo presentano da risolvere.
Nell'introduzione alla bolla Humanae salutis la diagnosi di questi ardui problemi è tutt'altro che evasiva e generica: «La Chiesa assiste oggi ad una crisi in atto nella società. Mentre l'umanità è alla volta di un'èra nuova, compiti di una gravità ed ampiezza immensa attendono la Chiesa, come nelle epoche più tragiche della sua storia. Si tratta, infatti, di mettere a contatto con le energie vivificatrici e perenni del Vangelo il mondo moderno: mondo che si esalta delle sue conquiste nel campo tecnico e scientifico, ma che porta anche le conseguenze di un ordine temporale che da taluni si è voluto riorganizzare prescindendo da Dio. Per cui la società moderna si contraddistingue per un grande progresso materiale, a cui non corrisponde un uguale avanzamento in campo morale. Di qui, affievolito l'anelito verso i valori dello spirito. Di qui, la spinta verso la ricerca quasi esclusiva dei godimenti terreni, che la tecnica progressiva mette con tanta facilità a portata di tutti. E di qui anche un fatto nuovo, del tutto sconcertante: l'esistenza cioè di un ateismo militante, operante su piano mondiale».
Tuttavia, secondo il Papa, il momento in cui la Chiesa entra in Concilio è particolarmente esaltante e impegnativo: «Il prossimo Concilio pertanto si riunisce felicemente e in un momento in cui la Chiesa avverte più vivo il desiderio di fortificare la sua fede e di rimirarsi nella propria stupenda unità; come pure sente più urgente il dovere di dare maggiore efficienza alla sua sana vitalità, e di promuovere la santificazione dei suoi membri, la diffusione della verità rivelata, il consolidamento delle sue strutture. Sarà questa una dimostrazione della Chiesa, sempre vivente e sempre giovane, che sente il ritmo del tempo, che in ogni secolo si orna di nuovo splendore, irraggia nuove luci, realizza nuove conquiste, pur restando sempre identica a se stessa, fedele all'immagine divina impressa sul suo volto dallo Sposo, che l'ama e protegge, Gesù Cristo».
Il Concilio non era dunque, come per il passato un "fatto interno" della Chiesa, anzi della gerarchia, in cui i fedeli non avessero diritto di guardare come a un fenomeno che li riguardasse direttamente e vitalmente. Diventava quello che per natura era sempre stato, ma mai sviluppato nei termini di partecipazione effettiva che oggi si rendevano necessari e fecondi. Papa Giovanni chiedeva a tutti la preghiera, perché quello doveva essere "il Concilio di tutti".
La bolla d'indizione terminava così: «Ed ora domandiamo a ciascuno dei fedeli e a tutto intero il popolo cristiano la continuazione della partecipazione e della preghiera più viva, che accompagni, vivifichi e adorni la preparazione prossima al grande avvenimento». Chiedeva preghiere anche ai «fratelli separati», perché il Concilio era davvero «ecumenico» e riguardava anche loro: «A questo coro di preghiere invitiamo altresì tutti i cristiani delle Chiese separate da Roma, perché il Concilio vorrà tornare pure a loro vantaggio. Noi sappiamo che molti di questi figli sono ansiosi di un ritorno di unità e di pace, secondo l'insegnamento e la preghiera di Cristo al Padre. E sappiamo anche che l'annunzio del Concilio non solo è stato da loro accolto con letizia, ma non pochi hanno già promesso di offrire le loro preghiere per il suo felice esito, e sperano di mandare rappresentanti della loro Comunità per seguirne da vicino i lavori; tutto ciò forma per noi motivo di grande conforto e speranza, e appunto per poter facilitare questi contatti abbiamo già da tempo istituito un Segretariato con questo scopo determinato».
Il 1962 si apriva ricco di speranze da una parte, e di timori dall'altra. Il favore del Concilio, presso cattolici e semplici cristiani, andava crescendo. Purtroppo andava peggiorando la situazione politica mondiale. Russia e Stati Uniti s'avviavano verso una crisi di rapporti talmente tesa e delicata da portare il mondo, nell'ottobre dello stesso anno, sulla soglia della guerra.
Il 2 febbraio 1962 Papa Giovanni pubblicava il mottu proprio con cui veniva fissata la data d'apertura del Vaticano II: l'11 ottobre, festa della Maternità di Maria. Il 17 marzo riceveva in udienza Eamon De Valera, presidente dell'Irlanda, e il 18 marzo Francisco Orlich, presidente della Costa Rica.
Finalmente, il 19 marzo, un nuovo concistoro, il quarto del suo pontificiato, per la nomina di dieci nuovi cardinali. Papa Giovanni guardava al "collegio" dei cardinali con occhio nuovo, anche se non mancava d'inserirvi, non senza stupore di molti, uomini già "finiti" o in "pensione" dal punto di vista, tutto umano, della carriera, dell'attività, dell'impegno. Gli si andava delineando con crescente chiarezza la funzione tutta nuova che quel collegio avrebbe dovuto rappresentare ed esercitare nella Chiesa, dopo il Concilio. Gli venne anche l'ispirazione più ovvia ed insieme geniale che, data quella nuova prospettiva, si potesse avere. Perché il Papa, Vicario di Cristo, successore di Pietro e vescovo di Roma, doveva essere eletto da uomini che solo per una certa percentuale erano vescovi anch'essi?
Restando ferme le tradizionali e classiche denominazioni dei tre "ordini" del cardinalato - vescovi, preti, diaconi - Papa Giovanni decise che tutti i porporati dovessero essere insigniti della autorità e della potestà episcopale. Il 15 aprile, con la lettera apostolica che comincia con le parole Cum gravissima, annunciava l'elevazione di tutti i cardinali preti e diaconi all'episcopato. Il "vescovo dei vescovi" sarebbe stato eletto da vescovi anche se solo i vescovi insigniti della porpora possedevano da secoli tale privilegio.
Il concistoro ebbe luogo il 19 marzo. I nuovi cardinali erano: José da Costa Nunes, Giovanni Panico, Ildebrando Antoniutti, Efrem Forni, Juan Landazuri Ricketts, Gabriele Acacio Coussa, Raoul Silva Henriquez, Leo Joseph Suenens, Michael Browne, Gioacchino Anselmo M. Albareda.
Gli uomini di maggior rilievo, nel gruppo dei nuovi porporati, erano già noti a tutti: Henriquez e Suenens. Del primo si è già visto come avesse preso sul serio gl'impegni della Mater et Magistra, e quale esempio avesse dato in un clima e in un continente contraddittorio come quello dell'America Latina. Suenens era un primate "di punta", uno degli esponenti del cattolicesimo più avanzato in paesi a confessione mista, come il Belgio. Sarebbe stato subito anche uno dei "protagonisti" più battaglieri del dibattito conciliare, un rappresentante appassionato ed intransigente di tutta la legittima "novità" della Chiesa.
Era il Papa stesso a volere - e prima di tutto dai cardinali - una "novità di vita". Lo disse con grazia e fermezza insieme durante il saluto rituale ai nuovi porporati: «Non è nello stile di questo primo annunzio dei nuovi cardinali l'elogio per ciascuno. Esso perciò vuole essere, più che atto di omaggio ad un passato sacerdotale pio, operoso e benemerito, la promessa di una attività nuova e splendente, che assicura alla Santa Sede un contributo di maturità e di consiglio specialmente prezioso per l'umile successore del beatissimo Apostolo Pietro... Ogni ecclesiastico infatti che venga onorato della sacra porpora, nella varietà di provenienze e di servigi già resi, si volge non a riposo, ma a variazione di lavoro, reca il segno di un contributo caratteristico che la Provvidenza riserva alla sua nobile vita, in vista delle ricompense che il cielo assicura, ed a cui anche la terra, diciamo anche la nostra storia, renderà onore».

IL PRIMO SANTO DI COLORE

Il 6 maggio 1962 Papa Giovanni canonizzava il primo santo "di colore" nella storia della Chiesa. Era un "converso" domenicano che aveva vissuto umilmente fra la sua gente, portando il sorriso e la pace dove passava. Il Papa che aveva insignito della porpora il primo cardinale negro, canonizzava il primo santo mulatto. Era la protesta e l'esempio di una Chiesa antirazzista e antisegregazionista, riaffermatrice, secondo la parola di san Paolo, della uguaglianza, davanti a Dio di tutti gli uomini come suoi figli. Fray Martin de Porres non era un'enciclica, non un documento del magistero: era l'indicazione di un uomo, un esempio vivo: uno di quei "segni dei tempi" che Papa Giovanni aveva sempre imparato ed insegnato, con la stessa prontezza. Con un Concilio alle porte, anche un gesto di semplice ministero come una canonizzazione, veniva ad acquistare un significato particolare, in quanto contribuiva a dare della Chiesa un'immagine veramente universale, superiore ad ogni condizionamento storico e sociale.
Il 10 maggio vi fu l'incontro con un altro esponente dei "fratelli separati", il Dott. Morris, vescovo anglicano di Edmundsberry, ed anche quella udienza venne ad inserirsi, spontaneamente, senza allusioni prestabilite, nella cornice del Concilio imminente.
Intanto la pace entrava in agonia non solo all'orizzonte dei due blocchi politici in conflitto ma anche nel cuore del continente africano che cominciava ad affrontare il problema dell'indipendenza dei singoli paesi, con tutte le conseguenze e le contraddizioni del caso. La guerra d'Algeria - una delle più coraggiose ed eroiche sul versante algerino ed una delle più assurde e anacronistiche sul versante francese - con il largo impiego della tortura che tutti sanno da parte dell'esercito colonialista - poneva un test rivelatore delle difficoltà che la pace stava incontrando sulla terra con la stessa intensità di quando era stata annunziata, la prima volta, come impegno e retaggio degli uomini nel Natale di Cristo.
Papa Giovanni non restò "spettatore" del conflitto complesso e delicato. Amava la Francia d'un amore particolare, come si è visto, ma il pontefice e il padre universale non aveva veli nel giudicare le responsabilità e le colpe, gli equivoci e gli errori della potenza coloniale francese. Era chiaro, da qualsiasi punto di vista morale, che gli stessi equivoci, le medesime crudeltà, anche se riscontrabili in qualche caso da parte algerina, non impedivano la necessaria obiettività d'un giudizio estremamente semplice: la Francia aveva torto, l'Algeria aveva ragione. Tutti gli altri problemi intermedi, delicatissimi e complessi, non potevano non essere posti in questa prospettiva.
Il Papa, giustamente, restò, come sempre, al di sopra delle fazioni: il suo appello però fu estremamente realista e circostanziato. Il 3 giugno disse: «L'angoscia è grande alla visione del sangue che bagna la terra, dovunque ciò accada, secondo o contro le regole dei conflitti armati. Ma che dire quando si tratta di vittime umane sacrificate in dispregio di accordi avviati e ricercati; sacrificate alla ventura, per una male intesa affermazione di diritti? Il comando divino risuona fermo e grave: Non occides, non ucciderai. È comando definitivo, dato dall'Autore della vita; affermato a tutela e difesa di un diritto che è eguale per tutti e la cui trasgressione reca fatali conseguenze e deleteri contraccolpi nell'ambito dei rapporti internazionali. Oh, spiagge mediterranee dell'Africa che noi visitammo or sono dodici anni, in tutto il vasto arco dalla Tunisia al Marocco, terre che il lavoro e la concordia potevano, possono ancora vivificare, a beneficio dei popoli e a trionfo della giustizia; sorga, sorga presto per tutte quelle regioni il giorno della pace, pace che è fraternità desiderata e conclamata, pace che è prosperità per tutte le famiglie». Il 6 luglio seguente Papa Giovanni lanciava ancora un messaggio alla popolazione algerina invitandola a cercare le vie della libertà nel rispetto dei patti fondamentali di ogni rapporto umano.
Il 6 settembre, con un motu proprio che inizia con le parole Appropinquante Concilio, veniva promulgato il regolamento dettagliato delle congregazioni del Vaticano II. Il grande momento si stava rapidamente avvicinando, e Papa Giovanni non mancava di prepararne il fecondo svolgimento con tutte le disposizioni e gli atti che avrebbero dovuto favorirne lo sviluppo interno ed esterno. Intanto continuava a ricevere personalità di primo piano, e, simultaneamente, a diffondere attorno a sé, nelle uscite sempre più frequenti dal Vaticano, un interesse per la Chiesa che era il seme più fervido di quel risveglio dell'opinione pubblica sulla quale proprio il Concilio avrebbe presto detto parole memorabili.
E l'11 settembre, ad un mese esatto dall'apertura del Concilio, Papa Giovanni volle preparare la coscienza e la sensibilità di tutti i cattolici al grande momento con un messaggio memorabile, in cui, fra l'altro, egli riaffermò solennemente che «la Chiesa è la Chiesa di tutti ma specialmente la Chiesa dei poveri».
«Il Concilio - diceva il messaggio - vorrà esaltare in forme sacre e solenni, le applicazioni più profonde della fraternità e dell'amore, che sono esigenze naturali dell'uomo, imposte al cristiano come regola di rapporto fra uomo e uomo, tra popolo e popolo». Per i rapporti tra società civile e società religiosa, c'è nel messaggio, qualcosa che sembra anticipare lo spirito della dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa: «Che dire dei rapporti tra Chiesa e società civile? Viviamo in faccia ad un mondo politico nuovo. Uno dei diritti fondamentali cui la Chiesa non può rinunciare è quello della libertà religiosa, che non è soltanto libertà di culto. Questa libertà la Chiesa rivendica ed insegna, e per essa continua a soffrire in molti paesi pene angosciose».
Era soprattutto in faccia ai popoli e ai paesi "sottosviluppati" che, secondo Papa Giovanni la Chiesa intendeva presentarsi come la "loro" chiesa, cioè la Chiesa dei poveri: «In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri».

«L'ACQUA CHE VA INCONTRO ALLA SETE»

Papa Giovanni è l'acqua che va incontro alla sete», ha scritto uno scrittore del nostro tempo, Alfonso Gatto. Mentre il magistero prendeva già concretamente le grandi responsabilità del Concilio e le comunicava, proporzionalmente, a tutta la Chiesa, il ministero del Papa restava sempre lo stesso: irradiazione di una grande umanità, di un'assoluta semplicità, di una inesauribile carità a contatto con tutti gli uomini.
Pensava a tutti, e il suo pensiero diventava preghiera, ogni giorno.
Un giorno durante un'udienza concessa ai corrispondenti della stampa estera residenti a Roma, confessava: «Nella mia recita quotidiana del rosario, nella prima parte, al terzo "mistero gaudioso", là dove si rievoca la nascita del Salvatore, il Papa recita le dieci Ave Maria per tutti i bambini nati nelle ventiquattr'ore precedenti. Appena un bimbo nasce, quello ha per sé la preghiera del Papa. Molti saranno cristiani, molti non lo saranno, e tuttavia tutti sono chiamati alla salvezza, quindi tutti mi appartengono».
Il tema della paternità si fa particolarmente tenero e profondo quando è chiamato ad effonderla sull'infanzia e sull'innocenza. Nel suo primo Natale da Papa, aveva ricevuto in forza di un tragitto postale singolare, la letterina di un bambino romano della seconda elementare, Stefano Paolucci. Quella lettera portava un indirizzo molto semplice: A Gesù Bambino - Via Cielo. Papa Giovanni la lesse e rispose a giro di posta. La risposta diceva: «La graziosa lettera che Stefano ha scritto al Bambino Gesù in cielo, è arrivata al suo Vicario in terra. Al piccolo Stefano, perché cresca buono e bravo il Santo Padre invia di cuore l'Apostolica Benedizione». Con la risposta c'era anche una bella offerta in denaro, che arrivò provvidenziale in casa Paolucci.
Il 12 aprile del 1960 aveva ricevuto un'altra innocente che veniva a chiedergli una benedizione, che certo sarebbe stata l'ultima e a vedere da vicino il suo volto. Era una bambina di otto anni Caterina Hudson. Veniva da Oklaoma City, ed era condannata a morire di leucemia nel giro di poche settimane. Aveva tanto sentito parlare di Papa Giovanni, ed aveva chiesto di andarlo a conoscere. I genitori avevano racimolato a stento la somma necessaria per il lungo viaggio, ed erano stati subito esauditi. La piccola Caterina, col vestito candido della prima comunione, era stata a lungo vicino al Papa, che la guardava con tenerezza sorridente e col cuore stretto, sapendo che la piccola, bella e rosea, aveva più pochi giorni di vita.
Ad un tratto il Papa guarda negli occhi la piccina e le domanda:
"Caterina, hai veduto in san Pietro, la grande statua dell'Apostolo, quella col piede consumato dai baci dei pellegrini"?
"Sì, l'ho vista, Padre Santo".
"Sai che cosa dico io ogni volta che passo davanti a quella statua? Dico: Obbedienza e pace. Penso che queste parole vadano bene anche per una bambina come te, non è vero"?
"Sì, Padre Santo: obbedienza e pace. Va bene così"?
"Sì, va bene, Caterina, va bene. Ed ora ecco per te questi doni: un rosario, una medaglia della Madonna e una foto del Papa che ti benedice".
Così era stata preparata alla morte la piccina che pochi giorni dopo se ne sarebbe andata, contenta di aver visto il Papa, d'aver parlato con lui. Papa Giovanni non dimenticò mai quel volto senza segni di morte, e già consegnato alla morte. E non ne dimenticò il sorriso di felicità che vi aveva fatto sbocciare.
Un'altra sera stava tornando in Vaticano dopo essere stato ad assistere alla distribuzione di alcuni pacchi-dono in un ospizio, quando, passando davanti ad un palazzo, il segretario particolare gli disse:
"Padre Santo, mandi una bella benedizione alla moglie del professor Lolli, inchiodata a letto da una grave malattia. Sta lassù, in quel palazzo".
"E perché dovrei mandargliela, giacché son qui? - disse il Papa. - Gliela porto, non è meglio"?
E gliela portò. Salì le scale del palazzo, e tra la sorpresa e la felicità dell'ammalata e dei familiari, sostò per alcuni minuti accanto al letto dell'inferma.
Nel novembre del 1962 volle visitare anche il Centro di Rieducazione per Minorenni. Senza che i superiori facessero alcuna pressione, bastò l'annuncio che il Papa sarebbe venuto a trovarli, perché quei ragazzi decidessero tutti spontaneamente di accostarsi alla comunione. Era un modo di dir grazie a chi li ricordava, a chi veniva loro incontro col sorriso e la paternità più comprensiva.
Era una bella accolta di "duri" a giudicarli in superficie. E avevano tutti un certo passato, pur essendo soltanto degli adolescenti. Toccò proprio al più "duro" leggere l'indirizzo di omaggio al Papa. Il succo di quel saluto, sulla bocca di un esponente della famigerata "gioventù bruciata", si ridusse ad una verità molto semplice e rivelatrice: «Voi sapete, Padre Santo, quanto noi abbiamo bisogno del vostro affetto».
Il Papa non riuscì a rispondere subito. Allargò le braccia in un silenzioso amplesso, quindi ritrovò, sia pure con gli occhi velati dalla commozione, il suo grande sorriso, e disse: «Figlioli, non è necessario che pensiate più al passato. Il Signore conosce bene quanto è successo; e tutto resta da ora affidato soltanto alla sua misericordia, alla sua infinita bontà. Solo il presente deve contare per voi».
Bastarono quelle parole per sciogliere il cuore di tutti quei ragazzi, anche dei più intrattabili. Quante mai volte avevano sentito parlare di speranza, di buona volontà, di fiducia nell'avvenire, di una nuova vita da ricominciare? Ma adesso sentivano che tutte quelle belle e incoraggianti parole avevano un senso. Ed anche un volto: il volto di quel vecchio Papa che s'era ricordato di loro ed era andato a trovarli.
La processione del Corpus Domini il 2 giugno 1962

Il Papa Giovanni XXIII con i sovrani del Belgio, Baldovino e Fabiola

GLI AUGURI DI KRUSCIOV

Per il 4 novembre 1961, anniversario della Incoronazione, il messaggio d'auguri certo più inatteso, ma forse umilmente sperato, che fosse giunto a Papa Giovanni, era stato quello di Krusciov. Il capo sovietico augurava «buona salute e successo per la nobile aspirazione di contribuire al rafforzamento e al consolidamento della pace sulla terra e alla soluzione dei problemi internazionali per mezzo di franchi negoziati».
Era un augurio che Papa Giovanni poteva accettare - ed accettò - tranquillamente. Sia pure sull'"altra sponda" - e con tutto il contesto ideologico e politico alle spalle - Krusciov era uno dei tre "protagonisti" della storia di quegli anni, uno dei tre "interlocutori" del mondo, e non poteva ignorare la forza della presenza del Papa e della Chiesa nella problematica della situazione mondiale. Cercava un "dialogo", a suo modo, e lo trovò. Papa Giovanni, infatti, rispose, augurando a sua volta felicità al popolo russo e per tutti "felici intese d'umana fraternità".
Pare che poi confidasse testualmente ai suoi intimi: «Oggi il signor Krusciov mi ha mandato gli auguri per il mio 80° compleanno. Potrebbe essere un'illusione: dobbiamo guardarcene. Ma potrebbe anche essere un filo tessuto dalla Provvidenza, e io non ho il coraggio di spezzarlo. Lasciar fare al Signore, lasciarsi condurre dal Signore, lasciar decidere e dire l'ultima parola al Signore».
Oggi è facile pensare, alla luce di quanto è accaduto e potrà soprattutto accadere, che cosa sarebbe stato un proseguimento di rapporti del genere, sia pure strettamente sigillati nelle forme diplomatiche, tra il Papa e il capo comunista della Russia. La versione autentica della famosa udienza al genero e alla figlia di Krusciov potrebbe bastare a dare la misura sia della prudenza sia della speranza del Papa.
Krusciov dimostrò d'essere particolarmente sensibile alla risposta del pontefice. Non si seppe direttamente, ma indirettamente. Sulla rivista ufficiale del Patriarcato di Mosca veniva condotta una campagna particolarmente violenta di diffidenza e di disprezzo nei confronti del Vaticano in specie e della Chiesa in genere. Fu proprio negli ultimi mesi del 1961 che quella polemica smise di colpo. E la seconda sessione del Vaticano II avrebbe visto giungere in san Pietro anche gli "osservatori" ufficiali del Patriarcato di Mosca.
Quell'udienza - fra lo scandalo dei farisei di ogni genere - sarebbe stata accordata proprio dopo la crisi di Cuba. Era un'udienza come tante altre, ma le "ragioni di stato" di troppa gente ci vollero vedere un cedimento, una specie di "dimissioni" della Chiesa di fronte al pericolo comunista. In realtà si trattava soltanto di salutare un uomo e una donna che avevano domandato, come tutti gli altri, d'essere ricevuti. Se erano stati ricevuti musulmani, buddisti, indù, perché non avrebbero dovuto essere ricevuti due comunisti, per il solo fatto d'essere lui direttore di un quotidiano del partito comunista russo e lei figlia del capo sovietico?
Alexei Adjubei sembra facesse subito a Papa Giovanni una proposta sconcertante: quella di restare, sia pure in forma non ufficiale, in contatto diretto con il Kremlino, per ogni eventualità che si dovesse tornare ai rischi dell'ottobre cubano.
Era una proposta ingenua, ma Papa Giovanni non mancò di apprezzarne lo spirito. E volle offrire al giornalista sovietico uno spunto addirittura biblico di meditazione sulla "legge di gradualità" che deve regolare cose tanto delicate e difficili. Cercò, insomma, di aiutarlo, nel migliore dei modi, a leggere anche lui "i segni dei tempi" alla luce del libro più sacro del mondo.
«Bene! - disse. - Dica al signor Krusciov che gli sono tanto grato di questa proposta, e condivido la sua preoccupazione. Ne parlerò certo coi miei collaboratori, e vedremo. Ma lei, intanto, da quel giornalista che è non ignora certo la Bibbia che dice: In principio Deus creavit coelum et terram: in principio Dio creò il cielo e la terra: Il primo giorno il Signore si è accontentato di una cosa: Fiat lux! C'è stata questa luce sulla terra. Poi, come lei sa, ci vollero sei giorni per arrivare all'uomo, sei giorni che sono poi èpoche lunghissime, centinaia, migliaia, addirittura milioni di anni. Solo dopo è apparso l'uomo sulla terra. Noi, oggi, siamo alla prima època: Fiat lux! La luce dei miei occhi nei suoi occhi, e i suoi occhi nei miei, e tanta cordialità, e tanto desiderio che il Signore ci accompagni per le vie che vorrà segnare. Lasciamo fare al Signore»!
Anche quell'incontro fu scaldato da una semplice e viva umanità!
Il Papa dimostrò di conoscere già i nomi dei tre figli di Rada Krusciov e di Adjubei. Ma non li disse. Volle che fosse la madre stessa a pronunziarli: Nikita, Alexis, Ivan.
«Che bei nomi!» - disse il Papa. E proseguì: - «Ivan vuol dire Giovanni, non è vero? Ritornando a casa, fate per me una carezza ai vostri figli, e in particolare a Ivan. Spero che gli altri due non saranno gelosi: è la carezza di un vecchio Giovanni a un piccolo Giovanni».
Poi, rivolto alla madre dei tre ragazzi:
«Signora, questo rosario è per lei. Mi hanno avvertito che a lei non dovrei dare in ricordo proprio un rosario, come un Papa non lo dà a principesse che non siano cattoliche. Ma io glielo dò lo stesso, invece che darle un libro e dei francobolli. Questo perché lei sappia che io, quando reciterò il terzo "mistero gaudioso" del mio rosario, mi ricorderò anche dei suoi bambini».
Giovanni XXIII abbraccia il neo-eletto vescovo A. Scheerer

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